mercoledì 25 febbraio 2015

In Afghanistan la missione NATO è finita ma (quasi) tutto resta come prima

In Afghanistan la missione NATO è finita ma (quasi) tutto resta come prima

Subito dopo gli attentati a New York dell’11 Settembre i servizi d’informazione non ebbero difficoltà a scoprire che l’organizzazione degli atti terroristici originava dall’Afghanistan ove si era creato uno stretto intreccio tra Al Qaida e il governo dei talebani.

Fu naturale e doveroso che il mondo reagisse contro quei barbari che anche già avevano dimostrato la loro lontananza dal comune sentire civile distruggendo monumenti plurisecolari e patrimonio dell’umanità solo perché non corrispondenti alla loro visione di ciò che significasse l’Islam. Il consenso alla guerra, partecipata con proprie truppe da molti Paesi, fu generalizzato e, d’altra parte, il governo talebano era all’epoca riconosciuto solamente dal Pakistan. 

Purtroppo, nel decidere l’offensiva militare mancò la contemporanea valutazione di molti altri fattori, tra cui la negativa esperienza avuta dall’Unione Sovietica che, dopo anni di guerra, sacrifici di vite umane e tanti soldi spesi si era dovuta ritirare abbandonando, di fatto, il Paese nelle mani di fanatici integralisti. Era mancata allora ai sovietici la stessa cosa che non fecero la Nato e i suoi alleati e cioè una valutazione sull’impatto culturale di un intervento straniero, la presa d’atto dell’endemica conflittualità tribale del posto e l’analisi dell’organizzazione economica del Paese, in buona parte dipendente dalla coltivazione del papavero da oppio.


Con la fine del 2014 è formalmente scaduto il mandato della missione Nato e l’idea che tanti hanno è che i militari ivi impegnati sarebbero tornati a casa. In realtà, leggendo con attenzione le decisioni prese, si sa che così non è. Il ritiro delle truppe avverrà gradualmente e, pur se si parla della fine 2016, non c’è alcuna certezza su quando l’ultimo soldato straniero lascerà il territorio afgano.

Nonostante le retoriche dichiarazioni ufficiali in occasione della formale chiusura della missione abbiano enfatizzato i successi ottenuti e plaudito alla raggiunta autosufficienza del Governo e delle forze militari e di polizia locale, tutti sappiamo che le cose non stanno per nulla in quei termini. Infatti, è esattamente quello il motivo per cui più di 12.000 soldati stranieri rimarranno ancora sul posto.

Se guardiamo con obiettività ai risultati della missione ISEF, siamo costretti ad ammettere che siamo molto lontani dal raggiungimento degli obiettivi programmati. Il governo talebano è stato indubbiamente sconfitto e alcune elezioni sufficientemente libere si sono tenute nel Paese ma dire che la situazione si sia stabilizzata e che la pace sia stata instaurata non corrisponde certo alla verità.

Il Paese è ancora preda di cruente lotte fra tribù, etnie e potentati locali. L’economia è solo sembrata risollevarsi ma, con assoluta evidenza, i soldi che sono girati erano legati soprattutto ai servizi destinati ai militari dell’ISAF. L a riduzione del numero di costoro ha, infatti, già portato a un crollo del volume di denaro circolante. La produzione di oppio (d’altronde, paradossalmente, giudicata un obiettivo non prioritario dalla missione internazionale) continua a essere la base di molta economia locale ed è destinata ad aumentare. 

Le numerose materie prime del sottosuolo, anche a causa della continuazione dei conflitti, non sono per niente sfruttate. Qualcuno vanta che dal 2001 a oggi il PIL locale sia quintuplicato ma, a parte l’influenza delle truppe straniere, è sotto gli occhi di tutti che almeno un terzo della popolazione ha condizioni di vita sotto al limite di sopravvivenza e perfino sotto i livelli di prima dell’intervento. Non solo, moltissimi dei soldi arrivati sono finiti nella corruzione e i pochi ricchi ne hanno approfittato per trasferire in sicure banche estere gran parte delle illecite somme accumulate.

Nonostante gli Stati Uniti abbiano speso in Afganistan 700 miliardi di dollari, la Banca Mondiale ha stimato che solo un massimo del 25% (ma qualcuno parla del 15%) del denaro arrivato a Kabul sia finito virtuosamente, in qualche modo, nel circolo dell’economia locale. E’ vero che sono stati costruiti qualche ospedale, qualche scuola, qualche nuova via di comunicazione, ma è pure vero che, nonostante rari e virtuosi esempi, la condizione di vita delle donne, dei bambini, e la praticabilità di una morale non fanatica stanno lentamente ritornando a essere quella del periodo talebano.

A tutto quanto sopra va aggiunto il grande rischio che, con la diminuzione dell’impegno internazionale e il minore presidio militare del territorio, possa capitare qualcosa di simile a ciò che successe a Kabul dopo il ritiro delle truppe sovietiche: un Governo locale debolissimo e ben presto moribondo, succube o soppiantato dai signori della guerra tornati a spadroneggiare.

Quali conclusioni trarne? Probabilmente l’intervento andava comunque fatto ma, mancando la capacità di lettura culturale e storica delle peculiarità locali, si corre il rischio di aver costruito una costosissima, in vite umane e in denaro, parentesi. Per poi far ritornare tutto peggio di prima. 

Qualcuno starà pensando alla Libia?
 

Mario Sommossa 


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