La domanda: "Cosa dobbiamo fare in proposito?", è posta solo da chi non capisce il problema. Se un problema può essere risolto, capirlo e sapere che cosa fare in proposito sono la stessa cosa. Per contro, fare qualcosa circa un problema che non si capisce è come cercare di spazzar via l'oscurità allontanandola con le mani. Quando facciamo luce, l'oscurità svanisce di colpo.
Ciò vale in particolar modo per il problema che ora ci sta di fronte. Come sanare la frattura tra l'Io e il me,
la mente e il corpo, l'uomo e la natura, e far cessare tutti i circoli
viziosi che essa determina? In che modo sperimentare la vita come
qualcosa di diverso dalla trappola di miele nella quale ci dibattiamo
come mosche? Come trovare sicurezza e tranquillità di mente in
un mondo la cui vera natura è l'insicurezza, l'impermanenza, il
mutamento incessante? Tutte queste domande esigono un metodo e una
linea d'azione. Al tempo stesso ci dimostrano che il problema non
è stato capito. Non abbiamo bisogno dell'azione, non ancora.
Abbiamo bisogno di più luce.
Luce qui significa
consapevolezza: essere consapevoli della vita, dell'esperienza
com'è in questo momento, senza alcun giudizio o idea su di essa.
In altre parole, dobbiamo vedere e sentire ciò che stiamo
sperimentando così com'è, non come lo si definisce.
Questo semplicissimo "aprire gli occhi" provoca la più
straordinaria trasformazione della comprensione e della vita, e ci
mostra come molti dei nostri problemi più sconcertanti siano
pure illusioni. Questa può sembrare un'eccessiva semplificazione
perché la maggior parte della gente pensa di avere già
una consapevolezza abbastanza piena del presente, ma vedremo che le
cose non stanno affatto così.
Siccome la
consapevolezza è una visione della realtà libera da idee
e giudizi, è chiaramente impossibile definire e mettere per
iscritto che cosa essa rivela. Tutto ciò che
può essere descritto è un'idea e non posso affermare
nulla di certo in merito a qualcosa, il mondo reale che non è
un'idea. Devo quindi limitarmi a parlare delle false impressioni che la
consapevolezza rimuove piuttosto che della verità che essa
rivela. Quest'ultima può essere soltanto simboleggiata con
parole che significano poco o nulla per quanti non abbiano una
comprensione diretta della verità in questione.
Ciò che è vero e certo è
troppo reale e troppo vivo per essere descritto: cercare di farlo
è come pitturare di rosso una rosa rossa. Perciò quanto
segue avrà necessariamente, per la maggior parte, una
qualità piuttosto negativa. La verità è rivelata
rimovendo ciò che le fa ombra: arte non dissimile dalla
scultura, in cui l'artista crea non costruendo ma togliendo a colpi di
scalpello.
Abbiamo visto come le
domande sul perseguimento della sicurezza e della pace in un mondo
impermanente dimostrino che il problema non è stato capito.
Prima di procedere oltre dev'essere chiaro che la sicurezza di cui
stiamo parlando è in primo luogo spirituale e psicologica. Per
esistere gli esseri umani devono avere un minimo di mezzi di
sussistenza in termini di cibo, bevande e vestiario - nell'intesa,
tuttavia, che tali mezzi non possono durare indefinitamente. Ma se la
certezza di avere questo minimo vitale per una sessantina d'anni
cominciasse a soddisfare il cuore dell'uomo, i problemi umani sarebbero
ben poca cosa. In realtà il vero motivo per cui questa certezza
ci manca è il fatto che vogliamo assai più del minimo
necessario.
Dev'essere chiaro fin
dall'inizio che c'è una contraddizione nel voler essere
perfettamente sicuri in un universo la cui vera natura è
transitorietà e fluidità. Ma è una contraddizione
leggermente più profonda che il semplice conflitto fra il desiderio di
sicurezza e il fatto del mutamento. Se voglio essere sicuro,
cioè protetto contro il fluire della vita, voglio essere
separato dalla vita. Eppure è proprio questo senso di
separatezza che mi fa sentire insicuro. Essere sicuro significa isolare
e rafforzare l'Io, ma è proprio l'impressione d'essere
un "Io" isolato a farmi sentire solo e impaurito. In altre parole,
più sicurezza potrò avere più ne vorrò.
Più
semplicemente: il desiderio di sicurezza e il senso di insicurezza sono
la stessa cosa. Trattenere il respiro è perderlo. Una
società che si fondi sul perseguimento della sicurezza non
è altro che una gara a chi trattiene di più il fiato, in
cui ognuno è teso come un tamburo e paonazzo come una
barbabietola.
Perseguiamo questa
sicurezza rafforzandoci e racchiudendoci in noi in moltissimi modi.
Vogliamo la protezione che ci viene dall'essere "esclusivi e
"speciali", cercando di appartenere alla chiesa più sicura, alla
nazione migliore, alla classe più alta, all'ambiente giusto,
alla gente "per bene". Queste difese provocano tra noi delle divisioni,
e quindi più insicurezza che esige più difese.
Naturalmente facciamo tutto nella sincera convinzione d'essere nel
giusto e di vivere nel modo migliore; ma anche questo è una
contraddizione.
Posso solo fare qualche serio tentativo di vivere secondo un ideale, di migliorarmi, se sono scisso in due. Ci dev'essere un Io buono che cerca di rendere migliore il "me" cattivo. L'Io, che ha le migliori intenzioni, cercherà di lavorarsi l'indocile 'me' e il contrasto fra i due ne metterà in rilievo il divario. Di conseguenza l'Io
si sentirà più separato che mai, e non farà che
acuire i sentimenti di solitudine e isolamento che determinano il
cattivo comportamento del 'me'.
Difficilmente riusciamo a prendere in
considerazione questo problema se non ci è chiaro che la brama
di sicurezza è essa stessa dolore e contraddizione, e che
più la perseguiamo più diventa dolorosa. Ed è
così per qualsiasi forma di sicurezza si possa concepire.
Vuoi essere felice,
dimentico di te stesso, ma più tenti di dimenticarti più
ricordi il sé che vuoi dimenticare. Vuoi sottrarti al dolore, ma
più lotti per farlo più attizzi il tormento. Hai paura e
vuoi essere coraggioso, ma lo sforzo per essere coraggioso è
solo paura che tenta di sfuggire a se stessa. Vuoi la
tranquillità dello spirito, ma il tentativo di tranquillizzarlo
è come cercare di sedare le onde con un ferro da stiro.
Tutti abbiamo
dimestichezza con questa specie di circolo vizioso sotto forma di
inquietudine. Sappiamo che essere inquieti non serve a niente, ma
continuiamo a inquietarci perché dire che non serve a niente non
fa cessare l'inquietudine. Siamo inquieti perché ci sentiamo in
pericolo e vogliamo essere al sicuro. Ma è perfettamente inutile
dire che non dovremmo voler essere al sicuro. Ingiuriando un desiderio
non ce ne liberiamo. Quel che dobbiamo scoprire è che non
c'è alcuna sicurezza, che cercarla è doloroso e che,
quando pensiamo di averla trovata, non ci piace. In altre parole, se
riusciremo veramente a capire ciò che stiamo cercando - che la
sicurezza è isolamento, e che cosa facciamo a noi stessi quando
la cerchiamo - ci accorgeremo di non volerla affatto. Non occorre che
ci vengano a dire che non dovremmo trattenere il respiro per dieci
minuti. Sappiamo benissimo che non possiamo farlo e che tentare di
farlo, è quanto mai scomodo.
La prima cosa da
capire è che non c'è scampo né sicurezza. Uno dei
peggiori circoli viziosi è il problema dell'alcolista. In
moltissimi casi egli sa benissimo che si sta distruggendo, che per lui
il liquore è veleno, che odia davvero essere ubriaco e
addirittura non può soffrire il gusto del liquore. Eppure beve.
Perché, per quanto possa detestare il bere, l'esperienza del non
bere è peggiore. Gli provoca le 'allucinazioni' perché lo
mette di fronte alla fondamentale, non più velata, insicurezza
del mondo.
Qui sta il punto
cruciale della questione. Essere posto di. fronte all'insicurezza
equivale ancora a non capirla. Per capirla non la si deve fronteggiare,
si deve essere l'insicurezza. E come la storia persiana del saggio che
giunse alla porta del Cielo e bussò. Dall'interno la voce di Dio
chiese: "Chi è là?". Il saggio rispose: "Sono io". "In
questa casa", replicò la voce, "non c'è posto per te e
me". Il saggio venne via e passò molti anni a riflettere su
questa risposta in profonda meditazione. Tornò poi una seconda
volta, la voce gli fece la stessa domanda e il saggio rispose di nuovo:
"Sono io". La porta rimase chiusa. Dopo qualche anno tornò per
la terza volta e quando bussò la voce gli chiese ancora: "Chi
è là?". Allora il saggio gridò: "Sei tu!", e la
porta gli fu aperta.
Capire che non
c'è sicurezza è assai più che essere d'accordo
sulla teoria che ogni cosa cambia, assai più, anche, che
osservare la transitorietà della vita. La nozione di sicurezza
si fonda sul sentimento che in noi ci sia qualcosa di permanente,
qualcosa che dura attraverso tutti i giorni e i cambiamenti della vita.
Lottiamo per essere sicuri della permanenza, continuità e
sicurezza di questo nucleo che persiste, di questo centro e anima del
nostro essere che chiamiamo l'Io. Pensiamo infatti che sia
esso l'uomo reale: il pensatore dei nostri pensieri, il senziente dei
nostri sentimenti, il conoscitore della nostra conoscenza. Non capiamo
proprio che non vi sarà alcuna sicurezza finché non ci
renderemo conto che questo Io non esiste.
La comprensione
giunge attraverso la consapevolezza. Possiamo allora accostarci alla
nostra esperienza, sensazioni, sentimenti, pensieri nel modo più
semplice, come se prima li avessimo sempre ignorati, ed esaminare senza
preconcetti ciò che sta accadendo? Mi si potrà chiedere:
"Quali esperienze, sensazioni, sentimenti dobbiamo esaminare?".
Replicherò: "Quali sono quelli che si possono esaminare?". La
risposta è che vanno presi in esame quelli che si hanno ora.
Certo, è
piuttosto ovvio. Ma spesso trascuriamo proprio le cose più
ovvie. Se un sentimento non è presente, non ne siamo coscienti.
Non c'è altra esperienza che l'esperienza presente. Ciò
che sappiamo, ciò di cui siamo effettivamente consapevoli,
è solo ciò che sta accadendo in questo momento,
nient'altro.
Ma i ricordi, allora?
Certo, ricordando posso anche conoscere ciò che è
passato? Benissimo, ricorda qualcosa. Ricorda l'episodio dell'incontro
di un amico per strada. Di che cosa sei consapevole? Non stai
effettivamente assistendo al vero avvenimento dell'incontro col tuo
amico. Non puoi andargli a stringere la mano o avere la risposta a una
domanda che ti eri dimenticato di fargli nel momento passato che stai
ricordando. In altre parole, non stai affatto esaminando il vero
passato. Stai esaminando la traccia presente del passato.
E come vedere le orme
di un uccello sulla sabbia. Vedo le orme che ci sono adesso. Non vedo,
contemporaneamente, l'uccello che un'ora fa le ha lasciate. L'uccello
è volato via e non lo vedo. Deduco dalle impronte che è
stato qui. Dai ricordi deduciamo che vi sono stati degli avvenimenti
passati. Ma non abbiamo la consapevolezza immediata di alcun
avvenimento passato. Conosciamo il passato solo nel presente e come
parte del presente.
Abbiamo visto dunque
che la nostra esperienza è assolutamente momentanea. Da un punto
di vista ogni istante è così elusivo e breve che non
riusciamo neppure a pensarlo prima che sia scomparso. Ma da un altro
punto di vista quest'istante è sempre qui, perché non
conosciamo altro istante che quello presente. Esso continua a morire, a
diventare passato più velocemente di quanto l'immaginazione
possa concepire. Ma al tempo stesso continua a nascere, sempre nuovo,
emergendo con altrettanta velocità da quell'assoluto ignoto che
chiamiamo il futuro. Pensano è qualcosa che lascia quasi senza
fiato.
Dire che l'esperienza
è momentanea equivale in realtà a dire che l'esperienza e
l'istante presente sono la stessa cosa. Dire che quest'istante continua
a morire, o a diventare passato, e che continua a nascere, o a venir
fuori dall'ignoto, equivale a dire la stessa cosa dell'esperienza.
L'esperienza che si è appena avuta è svanita ed è
irrecuperabile; tutto ciò che ne rimane non è altro che
una specie di scia o impronta nei presente che chiamiamo ricordo. Se
possiamo avanzare qualche congettura sulla prossima esperienza che
avremo, in realtà non ne sappiamo niente. Potrebbe accadere
qualsiasi cosa. Ma l'esperienza in corso ora è, per così
dire, un neonato che svanisce ancor prima di cominciare a crescere.
Mentre seguiamo
quest'esperienza presente, siamo consapevoli che qualcuno la sta
seguendo? Possiamo trovare, oltre all'esperienza in se stessa, uno
sperimentatore? Possiamo, contemporaneamente, leggere questa frase e
pensare noi stessi in atto di leggerla? Constateremo che, per farlo,
dobbiamo smettere di leggere per un istante. La prima esperienza
è la lettura. La seconda esperienza è il pensiero: "Sto
leggendo". Possiamo trovare un lettore, il quale stia pensando il
pensiero: "Sto leggendo"? In altre parole, quando l'esperienza presente
è il pensiero: "Sto leggendo", è possibile pensare noi
stessi in atto di pensare questo pensiero?
Dobbiamo di nuovo
smettere di pensare semplicemente: "Sto leggendo", per passare a una
terza esperienza, al pensiero: "Sto pensando di stare leggendo". La
rapidità con cui questi pensieri possono cambiare non deve darci
l'errata impressione che li pensiamo subito tutti. Che cosa è
avvenuto? Non riuscivamo mai a separarci dal nostro pensiero presente
né dalla nostra esperienza presente. La prima esperienza
presente era un'esperienza di lettura. Quando cercavamo di pensare noi
stessi in atto di leggere, l'esperienza cambiava e l'esperienza
presente successiva era il pensiero: "Sto leggendo".
Non riuscivamo a
separarci da quest'esperienza senza passare a un'altra. Era un girotondo.
Quando pensavamo: "Sto leggendo questa frase", non la leggevamo. In
altre parole, in ogni esperienza presente eravamo consapevoli soltanto
di quella stessa esperienza. Non eravamo consapevoli d'essere
consapevoli. Non riuscivamo mai a separare il pensatore dal pensiero,
il conoscitore dal conosciuto. Non trovavamo mai nient'altro che un
nuovo pensiero, una nuova esperienza.
Essere consapevoli,
dunque, è essere consapevoli di pensieri, sentimenti,
sensazioni, desideri e di ogni altra forma di esperienza. Non
c'è mai un momento in cui siamo consapevoli di qualcosa che non
sia esperienza, che non sia un pensiero o un sentimento, ma sia invece
uno sperimentatore, pensatore o senziente. Se è così, che
cosa ci fa pensare che esista una cosa del genere?
Potremmo dire, per esempio, che l'Io
pensante è questo corpo fisico e questa mente. Ma questo corpo
non è in alcun modo separato dai suoi pensieri e dalle sue
sensazioni. Quando abbiamo una sensazione, per esempio una sensazione
tattile, essa è parte del nostro corpo. Quando è in atto
non possiamo distoglierne il corpo, non più di quanto possiamo
allontanarci dal mal di testa o dai nostri piedi. Sinché
è presente, questa sensazione è il nostro corpo, siamo
noi. Possiamo togliere il corpo da una sedia scomoda, non possiamo
distoglierlo dalla sensazione della sedia.
La nozione di un pensatore separato, di un Io
distinto dall'esperienza, è data dalla memoria e dalla
rapidità con cui il pensiero cambia come far ruotare rapidamente
un bastoncino che brucia per dare l'illusione di un cerchio continuo di
fuoco. Se immaginiamo che la memoria sia conoscenza diretta del passato
anziché esperienza presente, abbiamo l'illusione di conoscere
passato e presente contemporaneamente. Questo ci fa pensare che in noi
vi sia qualcosa di distinto sia dalle esperienze passate sia da quelle
presenti. Ragioniamo così: "Conosco quest'esperienza presente e
so che è diversa da quell'esperienza passata. Se posso
confrontarle e osservare che l'esperienza è cambiata, ci
dev'essere qualcosa di costante e separato".
Di fatto,
però, non possiamo confrontare quest'esperienza presente con
un'esperienza passata. Possiamo solo confrontarla con un ricordo del
passato, che è parte dell'esperienza presente. Quando vedremo
chiaramente che il ricordo è una forma di esperienza presente,
diverrà evidente che è impossibile cercare di separarci
da quest'esperienza, proprio com'è impossibile cercare di far
sì che i denti mordano se stessi. C'è semplicemente
l'esperienza. Non c'è qualcosa o qualcuno che sperimenti
l'esperienza!
Non sentiamo sentimenti né pensiamo pensieri,
né percepiamo percezioni più di quanto non udiamo
l'udito, vediamo la vista, odoriamo l'odorato. "Mi sento bene",
significa che è presente una sensazione di benessere. Non
significa che c'è una cosa chiamata 'lo' e un'altra cosa
separata chiamata sensazione, per cui, se le mettiamo insieme, questo
'Io' sente il senso di benessere. Non vi sono altre sensazioni che le
sensazioni presenti, e qualsiasi sensazione presente è l'Io. Nessuno ha mai trovato un Io separato da qualche esperienza presente, o qualche esperienza separata da un Io, il che significa semplicemente che 'Io' ed esperienza sono la stessa cosa.
Come pura
argomentazione filosofica questa è una perdita di tempo. Non
stiamo cercando di fare una "discussione intellettuale". Stiamo
prendendo coscienza del fatto che ogni 'Io' separato che pensi i
pensieri e sperimenti le esperienze è un'illusione. Capirlo
è capire che la vita è assolutamente momentanea, che non
c'è né permanenza né sicurezza, che non c'è
alcun 'Io' che possa essere protetto.
C'è una storia
cinese su un uomo che si recò da un saggio e gli disse: "Il mio
spirito non ha pace. Ti prego di placarmelo". Il saggio rispose: "Tira
fuori il tuo spirito (il tuo 'Io') e mettimelo davanti; lo
tranquillizzerò". "Lo vado cercando da molti anni",
replicò l'uomo, "ma non riesco a trovarlo". "Ecco dunque",
concluse il saggio, "che si è placato! ".
Il vero motivo per
cui la vita umana può essere così totalmente esasperante
e frustrante non è l'esistenza di fatti chiamati morte, dolore,
paura o fame. La cosa pazzesca è che, quando questi fatti sono
presenti, noi ci giriamo intorno, ci agitiamo, ci dimeniamo, corriamo
via, tentando di sottrarre l'Io all'esperienza. Fingiamo
d'essere delle amebe e cerchiamo di proteggerci dalla vita dividendoci
in due. La salute mentale, l'interezza e l'integrazione risiedono nella
comprensione che non siamo divisi, che l'uomo e la sua esperienza
presente sono una cosa sola, e che è impossibile trovare un 'Io'
o una psiche separati.
Sino a quando
continuerò a pensare d'essere separato dalla mia esperienza vi
sarà confusione e scompiglio. Per questo non avrò
né consapevolezza né comprensione dell'esperienza, e
quindi nessuna vera possibilità di assimilarla. Per capire
questo istante non devo cercare di separarmene, ma devo esserne
consapevole con tutto il mio essere. E ciò, al pari del
trattenermi dal non respirare per dieci minuti, non è qualcosa
che dovrei fare. In realtà è la sola cosa che posso fare.
Qualsiasi altra cosa è la follia di tentare l'impossibile.
Per capire la musica
dobbiamo ascoltarla. Ma finché pensiamo: "Io sto ascoltando
questa musica" non la sentiamo. Per capire la gioia o la paura dobbiamo
esserne consapevoli in modo totale e indiviso. Finché le diamo
un nome e diciamo: "Sono felice", oppure: "Ho paura", non ne siamo
coscienti. Paura, dolore, afflizione, noia restano problemi se non li
capiamo, ma il capirli richiede una psiche semplice e indivisa. E'
certamente questo il significato dello strano detto: "Se il tuo occhio
è semplice anche tutto il tuo corpo è illuminato".
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