giovedì 21 gennaio 2016

Lotta di classe? No, lotta di popolo!

La lotta di classe si rivela per quel che è realmente. Ricchi contro poveri. Il capitalismo ha ingranato la quarta contro i diritti dei lavoratori, molti dei quali, la maggior parte, risalenti al ventennio fascista che fu senza dubbio il più prodigo di riforme sociali. Oggi i lavoratori sono sempre più divisi, costretti a una guerra tra poveri. La demolizione dell'articolo 18 e il mood: «Le aziende non assumono perché non possono licenziare» sono rivelatori di un disegno ben preciso: una lotta di classe alla rovescia che fa parte della controffensiva iniziata alla fine della guerra per liquidare lo stato sociale fascista. Dottrine neoliberiste, imposte con le baionette dai vincitori, comprimendo i salari e tagliando le spese sociali.
La flessibilità? Una catastrofe spacciata per salvifica: precariato, contratti a termine e licenziamenti facili non hanno mai garantito la creazione di nuovi posti di lavoro, esattamente come l' imposizione di nuove tasse non ha mai favorito la ripresa economica. La stessa Ocse non è mai riuscita a provare l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e maggiori posti di lavoro, e in alcune sue pubblicazioni arriva perfino ad ammetterlo. Usando gli stessi indici dell’Ocse, si scopre che ad aumentare dovrebbe essere la rigidità, semmai. Perché dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità in Italia e che la rende superiore ad altri paesi come Francia, Germania e Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati.
La lotta ideologica contro il valore lavoro per adesso ha vinto, culturalmente in primis. Basta vedere il calo dell'interesse e della partecipazione dei cittadini alla vita politica nei paesi sviluppati. Una politica che viene vista ormai come una sentina di immoralità e malaffare e una attività per gentaglia.
La fine delle ideologie è poi la più grande delle menzogne, una delle più robuste e articolate oggi in circolazione. È servita ad assicurare il dominio delle politiche economiche neoliberiste, e la legittimazione di quelle politiche sul piano culturale e ideale. Gli slogan li conosciamo bene: “ridurre la spesa pubblica”, “tagliare le imposte alle imprese e agli individui”, “occorre più flessibilità”, “meglio il lavoro temporaneo”, “il mercato deve guidare ogni immaginabile decisione, anche a livello locale”. 
Tutto questo ha avuto la meglio, anche nella cultura di gran parte della sinistra che rappresenta oggi e ogni giorno di più il servitore più pronto e disponibile ai desideri delle forze dominanti. L’egemonia attuale è vincente sia sul piano pratico che sul piano morale e culturale e la politica di austerità sta tagliando l’insieme delle condizioni di vita di milioni di persone, seminando recessione e povertà.
Eppure, a pensarci bene, non avrebbe senso pensare di continuare a produrre sempre di più, all’infinito. Il progresso non consiste nell’avere cinque telefoni e tre automobili a famiglia, ma ha a che vedere con la qualità della vita, del tempo libero, del lavoro. Negli anni ’70 aveva preso piede lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti”. Non era sbagliato, perché ora i sindacati sono muti? Non si è sentito nessun sindacato, o gruppo di sindacati, europeo o americano, alzare la voce per dire che era inaudito che il salario orario minimo in Cina fosse di 75 centesimi di dollaro; e che è scandaloso che aziende europee e americane protestino perché quell’innalzamento da 65 a 75 centesimi non permette più loro di operare con profitto. Muti e rassegnati di fronte a una delle peggiori espressioni di sfruttamento del capitalismo globale. 
I governi più o meno “tecnici” d’Europa, sono tutti governi di una destra economica liberista e omicida e la dottrina del profitto finanziario ha ormai definitivamente conquistato la sinistra riducendola al suo più devoto cameriere. Ci sarebbe da chiedersi perchè, a questo punto. Forse il timore di apparire agganciati a una storia di vecchie ideologie, ma ci credo poco. Sicuramente le comode poltrone, alla fine, sono piaciute anche a loro.
A ciò si aggiunga che c’è anche una seria questione di incompetenza. Si è capito ben poco di perché è nata la crisi, sul come si è sviluppata, per colpa di chi o di cosa. E infine c’è un calcolo meschino:l' Italia è in Europa, in Europa si gioca con queste regole e a tutto ciò non è stato estraneo un grigio calcolo elettorale, che tra l’altro se ne infischia della tragedia sociale innescata da un debito pubblico colossale, denominato in valuta estera dopo l'adozione dell'Euro e pertanto incontrollabile anche perchè a questo punto non si sa nemmeno più nemmeno in che mani sia, in un pianeta che ha prodotto nel suo complesso obbligazioni pari a cinquanta volte il PIL mondiale.
Inoltre, tornando a noi europei, la BCE non opera come una normale banca centrale e non può concedere prestiti a basso tasso di interesse direttamente agli Stati membri o ad altre istituzioni. 
Questo perché il trattato di Maastricht lo proibisce. Li concede alle Banche commerciali che a loro volta strozzano gli stati. Un capolavoro. Quei mille imbecilli che abbiamo distribuiti tra Camera e Senato hanno approvato un sacco di roba senza nemmeno sapere cosa stavamo facendo. Con ciò abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria, ritrovandoci con una divisa aliena e apolide, l'Euro, nata solo per combinare disastri.
Ecco perché non pagare il debito è attualmente impossibile, il meccanismo nel quale siamo inseriti non lo consente. L'istanza però resta moralmente valida, specie se si pensa alla dissennatezza del sistema finanziario che governa il mondo, al fatto che i Paesi hanno speso 4,1 trilioni di euro per salvare le banche aumentando così la propria esposizione fino a portarla a livelli che sono oramai insopportabili.
Per poterci salvare dovremmo tornare con rapidità alla lira e ricontrattare a muso duro tutta quella parte di debito, che non è poca, ritenuta "odiosa" ma ciò non sarà mai possibile con questa classe politica in plancia di comando. Con i Renzi, le Boschi, gli Alfano, i Padoan, e con gli attuali partiti, che sono ormai solo dei poveri rottami, sorpassati e demoliti dalla storia, accucciati in adorazione ossequiosa e trepida obbedienza ai piedi dei cosiddetti mercati. Ormai solo una sollevazione popolare può salvarci. Lotta di classe dunque? No. Lotta di popolo. Non vi sono altre strade, fatevene una ragione.
(Gianni Fraschetti)

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