mercoledì 29 giugno 2016

Per una teoria politica della mente



Osservate bene il filmato qui sopra. Si tratta del celebre “test della falsa credenza”, sviluppato negli anni ’70, che rappresenta, a mio avviso, una delle più importanti scoperte mai effettuate riguardo al funzionamento della mente umana, alla funzione del linguaggio e alla possibilità di dare una definizione a ciò che siamo soliti definire, in modo molto generico, “coscienza”.

Lo scopo del test è quello di accertare la capacità di un essere umano di rappresentarsi gli altri individui non come meri riflessi di se stesso, bensì in termini di stati mentali interni (come le convinzioni, le credenze, i valori, ecc.); vale a dire, la capacità di un individuo di riflettere sui propri meccanismi di pensiero e di distinguere tra le proprie credenze, basate sul possesso di dati di un certo tipo, e le credenze altrui, fondate sul possesso di dati diversi.

In parole non povere, ma misere: il test misura la capacità di un individuo di immaginare come pensano gli altri.

Uno dei tanti possibili svolgimenti del test è quello che vedete nel filmato: a un bambino di 4-5 anni viene mostrata una scatola che sembra contenere dei pastelli, ma che in realtà, quando viene aperta, si scopre piena di candele. Al bambino viene poi domandato: “Secondo te, questo orsacchiotto, che non ha mai visto la scatola, che cosa pensa che essa contenga?”. La risposta è quasi sempre: candele. Il bambino non sa ancora distinguere la realtà dai propri processi di pensiero; né è in grado di comprendere che la disponibilità di dati differenti può generare diverse visioni del mondo. Se io adesso so che dentro la scatola ci sono delle candele, perché non dovrebbe saperlo anche l’orsacchiotto? L’orsacchiotto non pensa forse come penso io? Non è forse parte di me?

Se però si ripete il test con bambini al di sopra dei 5 anni, gli esiti sono molto diversi. Alla domanda “secondo te, l’orsacchiotto che cosa pensa che ci sia nella scatola?”, la risposta è: pastelli. Io so che l’orsacchiotto possiede dati fasulli (il rumore che fanno le candele nella scatola, il disegno su di essa), come quelli che io possedevo all’inizio, dunque commetterà lo stesso errore che ho commesso io. Il bambino ha imparato:
1) Che egli è in grado di porre in atto delle procedure interne, chiamate “pensiero”, che sono distinte dalle procedure con cui opera l’ente chiamato “realtà” con cui è solito interagire;
2) Che le dinamiche con cui opera il meccanismo cognitivo del pensiero possono essere oggetto di riflessione ed essere predeterminate;
3) Che al possesso di dati differenti corrispondono meccanismi di pensiero differenti;
4) Che a meccanismi di pensiero differenti corrispondono individui differenti.
E’ la cosiddetta conquista della “metacognizione”, la quale comporta una serie di altre conquiste intellettive: la capacità di vedersi dall’esterno, di studiare le proprie dinamiche cognitive ed emotive, di riconoscersi come ente distinto dalla realtà esterna e – soprattutto - di valutare gli altri individui non solo come entità fisiche esterne ma anche in funzione delle loro interne dinamiche di pensiero.

Dopo i 5 anni, il bambino, per qualche motivo, sviluppa dunque ciò che potremmo semplicemente chiamare “coscienza” nonché la capacità di riconoscere tale “coscienza” in altri.

Si badi bene che l’acquisizione di queste qualità è una conquista evolutiva relativamente recente per il genere umano, databile a non più di 4000-5000 anni or sono. Prima di allora, le qualità metacognitive sopra descritte non erano appannaggio dell’intera specie, bensì rare prerogative di alcuni individui intellettivamente più evoluti.

Che cos’è che ha prodotto per la specie umana questo miracoloso salto evolutivo?

Che cos’è che, ancora oggi, lo determina, in ciascun individuo che abbia superato i 4-5 anni di età?

Semplice: è l’evoluzione del linguaggio.

La capacità di prevedere il comportamento di altri individui basandosi su una credenza che si sa essere falsa, richiede uno sviluppo significativo delle facoltà linguistiche: la capacità di parlare di eventi futuri (e dunque di distinguere il futuro dal presente); la capacità di formulare ipotesi; la capacità di definire possibili realtà alternative. Non sono in grado di prevedere che cosa penserà l’orsacchiotto se non possiedo tempi verbali in grado di rendere l’idea di futuro, modi verbali in grado di rendere l’idea di possibilità o di eventualità, strutture sintattiche complesse che mi consentano di collegare tra loro in un unico periodo differenti percezioni della realtà (“io credo che lui pensi…”).

Nessuna idea può acquisire forma senza rivestirsi di linguaggio.

Questo “salto” nelle capacità linguistiche, nei bambini, avviene solitamente intorno ai 4-5 anni; per l’umanità è avvenuto intorno al 3200 a.C., con l’invenzione e la diffusione della scrittura. A ogni arricchimento del linguaggio corrisponde un’espansione delle capacità di pensare il mondo, osservandolo da diversi punti visuali; viceversa, ad ogni impoverimento del linguaggio, corrisponde un’approssimazione tendenziale allo status intellettivo di un bambino di 4 anni, il quale non è in grado di percepire alcun pensiero, alcun sentimento, alcuna realtà, ad esclusione dei suoi personali.

Mi è venuto in mente il “test della falsa credenza” quando ho visto commentare, in diversi forum su internet, i risultati del referendum sul “Brexit”. E’ sconfortante la povertà di linguaggio che porta molti autori e commentatori a valutare le strategie geopolitiche poste in atto con tale operazione come se si trattasse di questioni appartenenti alla propria vita quotidiana; come se i gruppi dominanti statunitensi, che tengono in pugno l’Europa, e i gruppi di inquilini di un condominio pensassero allo stesso modo, vedessero il mondo nello stesso modo, distinguendolo nelle stesse categorie e sub-categorie.

Ci si rifiuta di riconoscere a questi gruppi dominanti una complessità di pensiero e una modalità di pianificazione che probabilmente noi uomini comuni non abbiamo ancora neppure il linguaggio adeguato per descrivere. Per fare un banale esempio, il termine “false-flag” è entrato nel mio personale vocabolario non più di una quindicina di anni fa.

Prima di allora, non avevo un termine per definire l’atto con cui un gruppo di potere organizza un evento politicamente dirompente (un eccidio, un assalto, una rivoluzione), attribuendone ad altri la responsabilità, allo scopo di perseguire finalità di dominio.

Esisteva, è vero, il termine “strage di stato”, che però i mezzi di comunicazione amavano ammantare di nebulosità semantica, senza mai fornirne una definizione cristallina; e che comunque si riferiva ad un atto occasionale, limitato all’ambito stragista e insospettabile, ad esempio, in un contesto insurrezionale, difficilmente richiamato in eventi a carattere internazionale, tendenzialmente connotato da interessi partitici, compiuto da settori “deviati”… niente che potesse ricondurre ad una strategia internazionale consolidata da oltre un secolo dagli stessi gruppi che, in molti casi, tengono oggi le redini della politica globale.

Non possedendo il termine “false-flag”, non ero neppure in grado di pensare la modalità operativa standardizzata che esso definisce. Così come è probabile che oggi, per carenza di un linguaggio adeguato, io non sia in grado di pensare molte modalità operative standard dei gruppi dominanti che vediamo porre in opera attraverso ciò che a noi sembra il consueto dispositivo della “democrazia”.

E se non ne sono in grado io, figuriamoci se lo è l’80% degli esseri italici, il cui vocabolario consta di poche centinaia di lemmi.

A proposito della Gran Bretagna, ho sentito dire cose scioccherelle: ad esempio, che sarebbe essa a tenere sotto controllo gli USA, anziché viceversa, poiché la sua ricchezza, la sua finanza e la sua qualità della vita sono mediamente superiori a quelle USA. Sorvolando sul chi controlla chi (che a me sembra, ahimé, anche troppo lampante), il punto è che la logica di un tale ragionamento è degna, appunto, di un bambino in età pre-metacognitiva.

Siamo noi persone comuni ad essere ossessionate dalla ricchezza, dalla finanza e dalla qualità della vita; attribuire le stesse ossessioni a personaggi che operano ad un livello sideralmente differente, significa non possedere la capacità di pensare come pensano gli altri, di distinguere le nostre dinamiche di pensiero da quelle di soggetti esterni.

Allo stesso modo, è davvero sconfortante vedere gente che esulta perché “il popolo, col referendum, ha fatto valere le proprie decisioni”. Questo credo sia un punto fondamentale, ma è difficilissimo farlo entrare nella zucca della gente, proprio perché il linguaggio che la maggioranza delle persone è abituata a parlare è dicotomico: cioè prevede la possibilità di scegliere soltanto tra due opzioni predefinite, escludendo qualunque pensiero che, comprendendo l’inutilità di entrambe, si muova alla ricerca di una terza o quarta via. O sei di destra o sei di sinistra. O sei pro-immigrazione o sei razzista. O sei per il “remain” o sei per il “leave”.

Pochissimi desiderano capire come funziona realmente il pensiero di chi può pianificare la struttura da imprimere al mondo: la maggior parte delle persone desidera soltanto avere una squadra per cui tifare e per cui suonare il clacson all’impazzata in caso di vittoria. Ero così anch’io, fino a una quindicina d’anni fa, e so cosa si prova, quali pulsioni ti costringono in questa prigione binaria del pensiero. Proverò perciò a scrivere qualche concetto in grassetto sottolineato, così magari, chissà, a qualcuno inizia a squillare un campanello nella cervice.

Allora: il popolo non decide e non conta nulla. Se mai inizierà o tornerà a contare qualcosa, non sarà certamente grazie a strumenti “democratici” come il referendum o le elezioni, che esistono al solo scopo di mantenerlo nell’assoluta impotenza.  

La democrazia non è la soluzione: è il problema.

E’ un insieme di vincoli a carattere normativo e rituale, imposti alla moltitudine attraverso la legislazione e la propaganda, che hanno una duplice funzione: la prima e meno importante, è quella di tenere sotto controllo le masse, conferendo loro un potere che esse credono sovrano, ma che in realtà è puramente liturgico, esatta negazione di qualsiasi potere effettivo sulle dinamiche politiche, interne o – a maggior ragione - internazionali; la seconda e più importante, è quella di fungere da strumento di composizione dei conflitti tra gruppi di potere, diverso dalla guerra aperta: attraverso gli strumenti della cosiddetta “democrazia”, i gruppi di potere hanno nelle mani un mezzo assai versatile per spingere le masse contro i gruppi avversi, per ricattarli, minacciarli, avvertirli oppure, in casi non rari, per pervenire alla stipulazione di una tregua.

La democrazia è la struttura attraverso la quale la gente comune diviene l’arma che ciascuna élite punta contro le élite avversarie. La democrazia istituzionalizza e formalizza, rendendolo permanente, il ruolo di “carne da cannone, già rivestito con successo dalla marmaglia in innumerevoli guerre e rivoluzioni. Nessuna moltitudine sana di mente va incontro, di sua spontanea volontà, alle sbarre di una “democrazia”. Per imporla è infatti necessario un inganno, un atto di forza o più spesso una vera e propria guerra, con stragi, devastazioni, bombardamenti indiscriminati sulla popolazione.

Se si capisce questo concetto, si riesce forse a inquadrare in una prospettiva di maggior realismo la vicenda del referendum britannico.

Tanto per cominciare, la decisione popolare, in sé, come si è visto, non conta un bel niente. Infatti il referendum non è giuridicamente vincolante e la volontà espressa attraverso di esso (con percentuali, peraltro, non esattamente bulgare) potrà tradursi in atto politico solo se il parlamento inglese deciderà di attuarla. E il parlamento inglese, su 650 membri, ne conta 489 (il 75%) che sono favorevoli alla permanenza nella UE. Gli scenari che si prospettano sono dunque soltanto i seguenti:
1) Il referendum è stato promosso da gruppi dirigenti britannici agguerriti e disposti a sfidare poteri soverchianti pur di riprendere, attraverso la riconquista di ampie sfere di autonomia nazionale, una politica di dominio, che la permanenza nell’UE – la quale, non dimentichiamolo, è struttura di controllo di matrice statunitense, affidata alla sorveglianza dei “kapò” tedeschi – non consente. Non nascondo che questa ipotesi rappresenta la mia non tanto segreta speranza. Ma è una speranza resa assai flebile dal pessimismo della ragione. Sapremo presto come stanno le cose. Se la Gran Bretagna volesse fare le cose secondo le regole, l’uscita dall’UE richiederebbe, secondo l’art. 50 del Trattato dell’Unione Europea, una procedura assai complessa che tra accordi e adeguamento delle normative si protrarrebbe per un minimo di 2 anni (ma di fatto molti di più, visto che moltissime norme britanniche, oggi riprese dalle normative europee, dovrebbero essere riscritte). Se vi sono reali intenzioni di staccarsi dall’UE, l’uscita sarà piuttosto rapida e drastica, probabilmente perfezionata in un periodo ben minore dei 2 anni previsti e probabilmente non indolore.
L’emergere di un nuovo e determinato gruppo dirigente europeo danneggerebbe gli interessi statunitensi, a partire dal naufragio degli accordi TTIP, spingendo gli ambienti di potere d’oltreoceano a giocare qualunque carta pur di scongiurare tale eventualità: già ieri si iniziava a parlare, in maniera anche piuttosto esplicita, di secessioni della Scozia e dell’Irlanda del Nord, che verrebbero certamente incentivate e finanziate da coloro che desiderano ridurre le élite inglesi a più miti consigli. Un vero gruppo dirigente a carattere nazionalista deve essere pronto ad affrontare questa eventualità, in verità non troppo “eventuale”. Se invece la Gran Bretagna deciderà di seguire la procedura di uscita prevista dal protocollo, allora sapremo che le intenzioni non sono serie.
Un distacco protratto per un periodo così prolungato, attraverso un percorso minato di trattative, compromessi, discussioni interminabili, vanificherebbe nei fatti ogni velleità indipendentista, esponendo la Gran Bretagna alle ritorsioni degli avversari. E’ banale dirlo, ma un apparato militare degno di questo nome, prima vince la battaglia, poi intavola trattative col nemico. Se le trattative vengono prima della battaglia, siamo di fronte a un gruppo animato da volontà di compromesso o di tradimento, non da volontà di potenza. Detto in altro modo: se vi è il desiderio di continuare a utilizzare gli strumenti “democratici” come mezzo di composizione dei conflitti tra gruppi di potere, allora siamo di fronte ad un bluff, non ad una vera lotta in grado di mutare la configurazione delle sfere d’influenza.
2) Il referendum è stato promosso dagli attuali gruppi di sub-dominanti britannici, al solo scopo di consolidare la propria posizione (anche a costo di sacrificare una nullità come Cameron) nei confronti di altri gruppi sub-dominanti, di livello nazionale, ma soprattutto internazionale. In particolare, i sub-dominanti inglesi stanno cercando di rafforzarsi nei confronti dei sub-dominanti tedeschi - ai quali gli Stati Uniti hanno affidato fin dall’inizio il compito di tirare le redini di quel lager a cielo aperto che chiamiamo Unione Europea – e magari, col tempo, di sostituirli nel ruolo di “kapò” dell’UE. Per quanto mi dispiaccia dirlo, dai balletti che ho visto finora mi sembra l’ipotesi più verosimile.
Attenzione però: ciò non significa che il risultato del referendum sia, nel complesso, inutile o poco interessante. Il fatto stesso che i sub-dominanti inizino a duellare tra loro, è indice del fatto che siamo in presenza di un indebolimento progressivo dei gruppi dominanti statunitensi, reso più forte dall’incertezza che circonda le prossime elezioni presidenziali.

Ci sono altri segnali che indicano la volontà dei gruppi sub-dominanti europei (tedeschi in primis) di prepararsi a scenari in cui il controllo degli USA sul continente europeo vada progressivamente allentandosi. Ad esempio, il fatto che, per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, la Germania abbia iniziato ad ampliare il proprio esercito regolare.

L’incremento di truppe militari sembra voluto e gestito dalla NATO in funzione antirussa, almeno questa è la versione che si sta cercando di far passare. Se anche fosse così, tale rafforzamento militare sta di fatto determinando reazioni preoccupate in Gran Bretagna, la quale sta ovviamente giocando le sue carte per garantirsi spazi di indipendenza e manovra. Non è inoltre una novità il “doppio gioco” dei tedeschi, i quali sostengono, da un lato, le sanzioni contro la Russia, ma dall’altro intavolano con essa trattative che sembrano preludere ad un allentamento della tensione, se non proprio ancora ad una vera partnership commerciale. In questo senso, è perfino possibile – dico “possibile” – che l’idea del “Brexit” sia stata almeno “tollerata” (se non proprio gestita) dagli stessi gruppi dominanti statunitensi, allo scopo di far capire alla Germania che, tenendo il piede in due scarpe, rischia di giocarsi il proprio ruolo di “cocchiere” dell’UE per conto terzi.

Ciò non toglie, naturalmente, che gli Stati Uniti abbiano ben fatto capire agli inglesi – attraverso i titoli che avete visto nei giorni scorsi sui loro mezzi di propaganda diffusi in tutta Europa - che un’azione nazionalista britannica, rivolta a proseguire oltre i limiti del mero spauracchio antitedesco, non sarebbe tollerata.

Succo del discorso: il referendum britannico, come qualsiasi altro evento che possieda un ampio rilievo geopolitico, per essere compreso nel suo reale significato deve essere studiato con gli occhi dei gruppi di potere che lo hanno progettato, non con quelli dei pur legittimi desideri di rivalsa popolare.

E per comprendere il punto di vista delle élite, è necessario che si inizi a parlare di politica con un linguaggio nuovo, che contempli ad esempio termini come “aree d’influenza”, “flussi di relazione”, “penetrazione politica” (di cui la penetrazione commerciale ed economica è solo un aspetto), “rapporti trasversali” tra gruppi di potere internazionali, che non coincidono necessariamente, anzi, non coincidono quasi mai, coi rapporti tra stati; e chissà quanti altri termini, che definiscono modalità operative a noi sconosciute e che dobbiamo ancora elaborare. Lo stesso concetto di “stato” andrebbe profondamente rivisto: si dovrebbe capire che quando parliamo di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, ecc., usiamo questi termini per comodità (un nome a queste entità bisognerà pur darlo, se vogliamo discuterne), ma stiamo in realtà parlando di multiformi articolazioni di gruppi di potere, i quali, pur facendo perno su un certo nucleo d’interessi relativamente stabile nel tempo, si configurano in sistemi di relazioni (accordi, rivalità, associazioni, raggruppamenti, guerre intestine, ecc.) estremamente differenziati e suscettibili di variazioni di fase in fase.

Se invece continueremo a inquadrare il problema coi nostri occhiali e col nostro linguaggio di uomini qualsiasi, non faremo altro che restare bambini, ben al di sotto della soglia della metacognizione.

Resteremo privi di una lingua che ci consenta di sviluppare una vera coscienza del meccanismo delle relazioni globali, quindi del tutto impossibilitati ad intervenire su di esso.

Dedico questo articolo a tutti coloro che, ad ogni inutile referendum, ad ogni inutile tornata politica vinta dalla squadra del cuore, sventolano le bandierine del risveglio dei popoli, della riscossa della “gente comune”, del trionfo della “democrazia”; senza neanche capire che stanno adorando esattamente l’orribile divinità a cui vengono quotidianamente sacrificati.

La gente comune avrà la sua riscossa quando inizierà a parlare (e quindi a pensare) come parlano (e quindi pensano) i potenti, elaborando un modello politico-teorico che consenta di preventivare le evoluzioni dei rapporti tra gruppi di potere, in modo da poter intervenire, a vari livelli, sui loro sviluppi.

Fino ad allora possiamo continuare a illuderci che le candele siano pastelli e che tutto il mondo sia in grado di realizzare con esse fantasmagorici e arcobalenici arabeschi.


Gianluca Freda

Fonte: www.comedonchisciotte.org
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=16612

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