lunedì 21 novembre 2016

Smania di possedere

 
“E’ mio!” E’ già il bambino ad esclamare “E’ mio”, quando qualcuno gli prende anche solo per un istante il balocco. Il bimbo comincia presto ad acquisire il senso del possesso, anzi della proprietà. Negli adolescenti questo atteggiamento è ormai consolidato: “io” (“il più lurido dei pronomi” lo definisce Carlo Emilio Gadda) e “mio” sono fra le parole più usate, a sancire un egocentrismo che è, al tempo stesso, conquista di un Lebensraum ed arroccamento.

Eppure i fanciulli più piccoli condividono i loro ninnoli, sia con i coetanei sia con gli adulti, un po’ come i cani che portano al padrone l’oggetto che è stato lanciato lontano. Poi qualcosa cambia…

Mio, tuo… invero nulla ci appartiene: adoperiamo degli oggetti, ma sono appunto in primo luogo strumenti dalle finalità pratiche, sebbene li consideriamo estensioni del nostro piccolo-grande ego. Potremmo anche adoperarli in comune con altre persone. Semmai sono i manufatti che abbiamo creato noi quelli di cui possiamo rivendicare in una certa misura l’esclusiva; gli altri spettano a chi li ha progettati e fabbricati.
 
Mio, tuo… l’attaccamento alle cose, la smania di possedere, di accumulare, persino di privare gli altri di quanto è di loro pertinenza, testimoniano una reificazione di chi palesa codesta cupidigia: si diventa cose tra le cose. Il denaro soprattutto accende e fomenta la bramosia, laddove la pecunia non dovrebbe neppure essere prestata senza chiedere gli interessi, ma, secondo la liberalità e le possibilità del donatore, semplicemente elargita. Nulla è regale quanto un regalo.

Mio, tuo… eppure riceviamo in prestito la stessa vita. Pensiamo forse di tenerla con noi per sempre? Pensiamo di tenere con noi patrimoni, ville e latifondi? Giungerà il giorno in cui ci accorgeremo di poter custodire nel tascapane soltanto la saggezza e la conoscenza… se saremo riusciti a raccoglierne qualche grammo lungo il difficile cammino.
 
 
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