venerdì 2 dicembre 2016

La conoscenza di sé

 
Quanto più conoscete voi stessi, tanto più c’è chiarezza.”
(Jiddu Krishnamurti)

“Ora, per favore, ascoltate con attenzione, perché vi siete fatti delle idee strane sulla conoscenza di sé – che per ottenerla dobbiate esercitarvi, dobbiate meditare, dobbiate fare ogni genere di cose. È molto semplice, signori. Il primo passo è l’ultimo nella conoscenza di sé, l’inizio è la fine. Il primo passo è ciò che conta perché non è cosa che possiate apprendere da un altro. Nessuno può insegnarvela, dovete scoprirla da soli; deve essere una vostra scoperta, e quella scoperta non è qualche cosa di tremendo, di assurdo; è semplicissima.

In fin dei conti, conoscere voi stessi è osservare la vostra condotta, le vostre parole, quel che fate in tutti i rapporti quotidiani; questo è tutto. Cominciate con ciò e vedrete come sia straordinariamente difficile essere consapevoli, anche solo osservare il vostro modo di comportarvi, le parole che usate col vostro domestico, col vostro capo, l’atteggiamento che avete nei confronti della gente, verso le idee e le cose.

Esaminate i vostri pensieri, i vostri moventi nello specchio del rapporto e vedrete che, nel momento in cui osservate, volete correggere, dite: «Questo è bene, questo è male. Devo fare questo e non quello». Quando vi vedete nello specchio del rapporto, il vostro è un approccio di condanna o di giustificazione e, quindi, distorcete ciò che vedete. Mentre se osservate semplicemente in quello specchio il vostro atteggiamento nei riguardi della gente, verso le idee e le cose, se vedete soltanto il fatto senza giudizio, senza condanna o accettazione, allora scoprirete che quella stessa percezione ha la propria azione. Quello è l’inizio della conoscenza di sé.

Guardare voi stessi, osservare ciò che fate, ciò che pensate, quali sono i vostri moventi e incentivi e ciò nonostante non condannare o giustificare, è una cosa straordinariamente difficile a farsi, perché tutta la vostra cultura si basa sulla condanna, sul giudizio e sulla valutazione; siete stati educati a furia di «Fai questo, e non quello». Ma se siete in grado di guardare nello specchio del rapporto senza suscitare l’opposto, allora scoprirete che non c’è limite alla conoscenza di sé.

Vedete, l’indagine sulla conoscenza di sé è un movimento verso l’esterno che, più tardi, si volge all’interno. Dapprima guardiamo le stelle e poi ci guardiamo dentro. Allo stesso modo, cerchiamo la realtà, Dio, la sicurezza, la felicità, nel mondo oggettivo, e quando non la troviamo lì, ci volgiamo all’interno. Questa ricerca del Dio interiore, del sé supremo, o di quel che volete, cessa del tutto tramite la conoscenza di sé, e allora la mente si fa estremamente quieta, non per mezzo della disciplina, ma soltanto attraverso la comprensione, l’osservazione, l’essere consapevole di se stessa, in ogni minuto, senza alternativa.

Non dite: «Devo essere consapevole, ogni minuto», perché quella è soltanto un’altra manifestazione della nostra stupidità allorquando vogliamo ottenere qualcosa, quando vogliamo raggiungere uno stato particolare. Ciò che importa è essere consapevoli di voi stessi e continuare a esserlo senza accumulazione, perché non appena accumulate, da quel centro voi giudicate. La conoscenza di sé non è un processo d’accumulazione; è un processo di scoperta, di momento in momento, nel rapporto.

Nient’altro che consapevolezza! La consapevolezza dei vostri giudizi, dei vostri pregiudizi, delle vostre simpatie e antipatie. Quando vedete qualcosa, quel vedere è il frutto del vostro confronto, della vostra condanna, del vostro giudizio, della vostra valutazione, vero? Quando leggete qualcosa, state giudicando, state criticando, state condannando o approvando. Essere consapevoli è vedere, all’istante, tutto questo processo di giudizio, di valutazione, vedere le conclusioni, il conformismo, le accettazioni, i rifiuti.

Ora, si può essere consapevoli senza tutto ciò? Per il momento, tutto quello che conosciamo è un processo di valutazione, e quella valutazione è il frutto del nostro condizionamento, del nostro bagaglio di esperienze, dei nostri influssi religiosi, morali ed educativi. Questa cosiddetta consapevolezza è il risultato della nostra memoria - memoria intesa come il «me», l’olandese, l’hindú, il buddhista, il cattolico, o quel che si voglia.

È il «me» – i miei ricordi, la mia famiglia, la mia proprietà, le mie qualità – che guarda, giudica, valuta. Ora, ci può essere consapevolezza senza tutto ciò, senza il sé? È possibile guardare soltanto, senza condanna, osservare soltanto il movimento della mente, della propria mente, senza giudicare, senza valutare, senza dire: «È bene» o «È male»?

La consapevolezza che scaturisce dal sé, che è la consapevolezza della valutazione e del giudizio, fa sorgere sempre la dualità, il conflitto degli opposti – quel «ciò che è» e quel «ciò che dovrebbe essere». In quella consapevolezza c’è giudizio, paura, valutazione, condanna, c'è identificazione. Non è che la consapevolezza del «me», del sé, dell’«Io», con tutte le sue tradizioni, i suoi ricordi, e via dicendo. Una simile consapevolezza suscita sempre conflitto tra l’osservatore e l’osservato, tra ciò che sono e ciò che dovrei essere.

Ora, è possibile essere consapevoli senza questo processo di condanna, di giudizio, di valutazione? È possibile che io mi guardi, quali che siano i miei pensieri, e non condanni, non giudichi, non valuti? Non so se ci abbiate mai provato. È veramente arduo, perché tutta la nostra formazione dall’infanzia ci conduce a condannare o ad approvare. E nel processo di condanna o di approvazione c’è frustrazione, c’è paura, c’è un tormentoso dolore, c’è ansietà, il che è il processo stesso del «me», il sé.

Allora, sapendo tutto ciò, può la mente, senza sforzo, senza cercare di non condannare - giacché nel momento in cui dice: «Non devo condannare», è già intrappolata nel processo di condanna - può la mente essere consapevole, senza giudizio? Può limitarsi a guardare spassionatamente e, quindi, osservare quegli stessi pensieri, quelle stesse sensazioni nello specchio del rapporto – rapporto con le cose, con la gente e con le idee?

Questa tacita osservazione non provoca freddezza, un gelido intellettualismo – al contrario. Se comprendo qualcosa, non deve, ovviamente, esserci condanna, confronto alcuno – è semplice, non vi pare? Ma noi pensiamo che la comprensione scaturisca dal confronto, e in questo modo aumentiamo i confronti. La nostra educazione è di tipo comparativo, e tutta la nostra struttura morale, religiosa è fatta per confrontare e condannare.

Quindi, la consapevolezza di cui sto parlando è la consapevolezza dell’intero processo di condanna, e ne è la fine. In essa c’è osservazione senza alcun giudizio - cosa che è estremamente difficile; implica la cessazione, la fine completa del definire, del denominare. Quando mi rendo conto di essere bramoso, avido, stizzoso, passionale, o quel che si voglia, non è possibile osservarlo soltanto, esserne consapevole, senza condannare? - il che significa proprio smettere di attribuire un nome alla sensazione.

Infatti, quando do un nome, per esempio «avidità», l’attribuzione stessa del nome è il processo di condanna. Per noi, neurologicamente, la parola stessa «avidità» è già una condanna. Liberare la mente da ogni condanna significa cessare di attribuire dei nomi. Dopo tutto, il nominare è il processo di chi pensa. E il pensante che separa se stesso dal pensiero – il che è un processo del tutto artificiale, è irreale. Esiste solo il pensare; non c’è alcuna entità pensante; c’è solo una condizione d’esperienza, non l’entità che esperisce.

Così, tutto questo processo di consapevolezza, di osservazione è il processo di meditazione. È, in altri termini, la propensione a sollecitare il pensiero. Per la maggior parte di noi, i pensieri sopraggiungono senza sollecitazione – un pensiero dopo l’altro. Il pensare è incessante; la mente è schiava di ogni sorta di pensiero errabondo.

Se ve ne rendete conto, allora vedrete che può esservi una sollecitazione al pensiero - una sollecitazione del pensiero - e allora un perseguire ogni pensiero che abbia a sorgere. Per la maggior parte di noi, il pensiero giunge non sollecitato; in qualsiasi maniera. Comprendere quel processo e sollecitare, allora, il pensiero e perseguire quel pensiero fino alla fine è l’intero processo che ho descritto come consapevolezza; e in ciò non c’è un denominare.

Allora vedrete che la mente si fa straordinariamente quieta - non con fatica, non attraverso la disciplina, non attraverso una qualsiasi forma di tortura inflitta a se stessi e di controllo. Mediante la consapevolezza delle proprie attività, la mente diventa sorprendentemente quieta, calma, creativa - priva dell’azione di qualsiasi disciplina o di qualsiasi imposizione. 

Allora, in quella calma della mente, si presenta il vero, senza sollecitazione. Non potete sollecitare la verità; essa è l’ignoto. E in quel silenzio colui che sperimenta è assente. Perciò, ciò che è sperimentato non viene accumulato, non viene ricordato come «la mia esperienza della verità». 

Allora la vita ha qualcosa che è al di fuori del tempo – che non può essere misurato da chi lo sperimenti, o da chi meramente ricordi un’esperienza passata. La verità è qualcosa che giunge di momento in momento. Non va coltivata, non va accumulata, immagazzinata e trattenuta nel ricordo. Giunge soltanto quando c’è una consapevolezza in cui colui che sperimenta è assente.”

(Jiddu Krishnamurti, Verso la liberazione interiore, Guanda ed.)


fonte: http://lacompagniadeglierranti.blogspot.it/2016/10/la-conoscenza-di-se.html

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