La data del 26 aprile 1986 è entrata nella storia, e ci rimarrà per sempre, per il tragico incidente di Chernobyl: la “Chernobilskaja Avarija” o “ Chernobilskaja Katastrofe“,
nell’accezione ucraina ancora più incisiva e forte, è da più di 30
anni, e lo sarà ancora per molti anni, il simbolo dei rischi connessi al
nucleare e al suo sviluppo. La versione ufficiale ci ha informati, e
continua a ripeterci, che in quel giorno, alle ore 1:23, presso la
centrale nucleare situata a 3 km da Prypjat e a 18 km da Chernobyl,
avvenne il fatale incidente: il personale, in maniera inopinata ed
irresponsabile, in violazione di numerosi protocolli e allo scopo di
eseguire un test per saggiare la sicurezza complessiva dell’impianto,
avrebbe aumentato repentinamente la temperatura nel nocciolo del
reattore numero 4.
La scissione dell’acqua in idrogeno ed ossigeno,
determinata da quella dinamica, avrebbe provocato la rottura delle
tubazioni del sistema di raffreddamento del reattore, con esplosione,
scoperchiamento dello stesso e conseguente, vasto incendio della
grafite, minerale presente, negli impianti nucleari, in barre per
assorbire le radiazioni. Una nuvola di materiale radioattivo,
sprigionandosi, avrebbe esteso la sua mortifera ombra su un’area
sterminata.
Fin qui, la versione ufficiale, illuminante e certamente
degna di fede rispetto alla descrizione oggettiva di alcuni passaggi, ma
assolutamente lacunosa e omertosa sul quadro generale esistente in
quella maledetta notte dell’aprile ’86. Versione che diventa addirittura
grottesca e paradossale quando pretende di accreditare presunte carenze
strutturali della centrale nucleare esistente, costruita invece secondo
i più rigorosi criteri allora esistenti, a livello edile ed
ingegneristico.
Che poi il nucleare sia intrinsecamente pericoloso,
vulnerabile e rischioso, questa è una considerazione, almeno per chi
scrive, assolutamente condivisibile, ma che vale a Chernobyl come a
Fukushima e in ogni altra parte del mondo. La verità ufficiale, diffusa
con al potere il revisionista Gorbaciov, legato alle centrali
imperialiste e ai circoli mondialisti, è tutto fuorché oro colato da
custodire nei crogioli della ricerca storica: è, con ogni evidenza, una
verità di comodo, come dimostrano diversi fatti. Vediamoli uno per uno.
L’insigne fisico nucleare Nikolaj Kravchuk, supportato da altri
eminenti calibri della scienza russa ed ucraina, tra i quali I.A.
Kravets e V.A. Vyshinskij, presentò nel 2011 uno studio sull’incidente
occorso alla centrale nucleare ucraina, dal titolo di per sé eloquente: “L’enigma del disastro di Chernobyl”.
Frutto di ricerche condotte con coraggio, abnegazione e autentica sete
di verità, tale studio ha sollevato polemiche e provocato la levata di
scudi del mondo accademico, chiuso nel suo conformismo, quando non nella
complicità verso la disinformazione pilotata dal potere che lo
sostiene, lo foraggia, ne avalla o ne impone le tesi ufficiali.
Per il
suo testo decisamente al di là di ogni verità di comodo, Kravchuk ha
subito un ostracismo che nemmeno al più immorale e abietto dei
delinquenti sarebbe toccato in sorte: dileggiato, emarginato,
minacciato, è stato infine espulso (lui, studioso tra i migliori
presenti sul campo!) dall’Istituto di Fisica Teorica “Bogoljubov”
dell’Accademia Nazionale delle Scienza dell’Ucraina, quello stesso
Istituto che ha visto, nei decenni, operare con profitto e risultati
apprezzati a livello mondiale calibri quali lo scienziato eponimo,
ovvero Nikolaj Nikolaevich Bogoljubov, Aleksandr Sergeevich Davydov,
Aleksej Grigorevic Sitenko.
Il torto di Nikolaj Kravchuk qual è stato?
Uno solo, ma imperdonabile: quello di aver evidenziato, con rigore
analitico e inappuntabile metodo scientifico, i talloni d’Achille della
tesi ufficiale sull’incidente di Chernobyl, diffusa subito dalla cupola
gorbacioviana affinché il mondo pensasse a negligenze, arretratezze
strutturali della base materiale industriale e scientifica dell’URSS,
debolezze inesistenti, anziché ad altro, in primis a complotti
orchestrati e condotti per minare l’URSS in quanto unica potenza capace
di competere con il mondo capitalista e superarlo per produttività,
concorrenzialità, capacità di costruire una società migliore, a misura
d’uomo. In primis, Kravchuk dimostra, con dovizia di dati, come l’azione
di sollecitazione sul reattore n. 4 sia stata reiterata nel tempo, a
partire dal 1° aprile 1986 fino al 23 dello stesso mese, e non
esercitata solo la notte del tragico incidente, nel quadro del famoso
“test di sicurezza”, come ha preteso e pretende il “dogma” ufficiale.
Tutto ciò in nome di un obiettivo, lucido e scientemente perseguito,
volto a sabotare la centrale.
Kravchuk non usa troppo la parola
“complotto”, o meglio non ne fa abuso, ma quando scrive che, a
Chernobyl, nell’aprile del 1986, sono state poste in essere “azioni ben
pianificate e pre–implementate”, intende rendere pienamente
intellegibile una situazione nella quale tutto ha avuto posto, fuorché
la casualità. In particolare, il reattore n. 4 era stato stipato di
materiali radioattivi con un contenuto fino a 1500 MegaCurie (il “Curie”
è l’unità di misura della radioattività, adottata a partire dal
Congresso Internazionale di Radiologia di Bruxelles del 1910).
In alcune
cellule del reattore, poi, era presente del Plutonio 239, combustibile
utilizzato nei sottomarini nucleari e potente fattore d’innalzamento
della temperatura complessiva. Tutto questo non poteva essere né casuale
né incidentale: dobbiamo pensare vi fosse, altresì, la deliberata
volontà di mandare in tilt l’impianto, di provocare un incidente, a meno
di non postulare la follia, l’insania di qualcuno come il movente unico
e solo del fatto, dopodiché non si spiegherebbero però le coperture,
gli insabbiamenti, i depistaggi sistematicamente attuati dal vertice del
potere, in URSS come a livello mondiale.
Vi sono però altri tasselli
che, messi insieme, vanno a comporre un mosaico inquietante: la notte
del 26 aprile, qualificati specialisti in forza alla centrale, a partire
da A. Chernyshev, non furono autorizzati a prestare servizio e altri
presenti fecero di tutto, disperatamente, per fare in modo che Anatolij
Stepanovich Djatlov, ingegnere capo, quadro direttivo della centrale,
stoppasse l’assurdo test di sicurezza, nel quale, lo ribadiamo, la
maggior parte dei sistemi di protezione era stata disattivata per…
saggiare il livello di sicurezza dell’impianto (!!!). Come se, per
testare la sicurezza di un’automobile, la si spingesse a 200 all’ora
lungo una discesa, con i passeggeri privi di cinture di sicurezza e le
portiere spalancate.
Vi era stata, da parte di molti quadri tecnici, una sollevazione generale contro le criminali sollecitazioni, ripetute nel tempo, del reattore n. 4? Djatlov era lo strumento di una volontà superiore alla quale non aveva voluto o saputo opporsi? Di certo, si sa che almeno due tecnici, Aleksandr Akimov e Leonid Toptunov, furono minacciati di licenziamento per essersi opposti al disinserimento dei meccanismi di sicurezza, misura questa non solo folle, ma anche proibita dai protocolli disciplinanti il funzionamento della centrale.
Sono ancora
molti i lati oscuri della vicenda, ma, di certo, in quella primavera
solo apparentemente dolce e rigenerante di 31 anni fa, a Chernobyl tutto
era stato predisposto per la creazione di una “bomba” devastante,
pronta ad esplodere senza freni e l’esito fu, in tal senso, coronato da
successo.
Non è tutto però: altri tre elementi aggiungono alla disamina
dei fatti un corredo di precedenti e di circostanze da brivido. Già nel
1982 (ci si concentri su questa data, come vedremo in seguito,
strategica!) il reattore n. 1 della centrale in questione, sempre a
causa di “manovre errate”, aveva subito la distruzione dell’elemento
centrale e si era evitata la catastrofe solo grazie alla prontezza e
alla perizia del personale.
Qualche anno dopo la tragedia, poi, vicino
al teatro dell’esplosione furono ritrovate tracce di TNT e di esplosivo
al plastico: ne parlò il giornale russo Trud in un articolo
pubblicato nel numero 74 del 1995, subito circondato dal chiasso
assordante dell’omertà, della congiura del silenzio, come sempre avviene
quando la verità viene sbattuta in faccia a chi pensa che il Re sia
nudo. A Chernobyl vi fu anche un’esplosione di natura terroristica? Una
“doppia bomba”, con effetto combinato di ordigno ed esplosione indotta
del reattore? Nessuno, su questo, ha fornito risposte efficaci e
convincenti.
Come nessuno le ha anche solo adombrate rispetto a quanto
sostenuto dagli studiosi Je. Sobotovich e S. Chebanenko, i quali hanno
riferito di aver trovato, nella zona della centrale nucleare, un gran
numero di tracce di uranio altamente arricchito, ricollegando questo al
“carico segreto£ con il quale era stato riempito il reattore n. 4
esploso. Chi poteva avere interesse a generare un disastro? E com’è
possibile pensare che una parte dei tecnici presenti a Chernobyl
accettasse di suicidarsi, anche in nome di piani eversivi condivisi?
Andiamo per ordine.
Come
abbiamo già accennato, l’interesse a sabotare l’economia dell’URSS, il
suo possente apparato infrastrutturale tecnico–scientifico, era ben vivo
e anzi prioritario nelle strategie dell’imperialismo, specie dopo
l’ascesa al potere, negli USA di Ronald Reagan, sostenuto dalle più
agguerrite lobbies anticomuniste. Abbiamo prima parlato del 1982, anno
nel quale il reattore n. 1 della centrale di Chernobyl subì un danno
derivato da azioni “improvvide” del personale in servizio.
Ebbene, in
quello stesso anno la CIA di William Casey dava inizio al suo piano
aggiornato di destabilizzazione dell’URSS e dei Paesi socialisti,
mediante sabotaggi e attentati, piano approvato e “vidimato” da Reagan
nel mese di gennaio, in coincidenza temporale con fatti come il
rapimento Dozier in Italia, pilotato dai servizi USA, e il massiccio
finanziamento del sindacato anticomunista polacco Solidarnosc
ad opera delle centrali imperialiste. Il via alle “danze” terroristiche
ed eversive lo diede l’esplosione di un gasdotto in Siberia, generata
dall’impiego di un software difettoso, esportato deliberatamente dagli
USA in URSS per produrre danni irreversibili.
Il fuoco ed il fumo che si
sprigionarono dalla deflagrazione, furono ripresi dai satelliti ed
allarmarono un gran numero di persone, convinte che fosse avvenuta una
catastrofe nucleare. Tutto ciò è stato raccontato, fin nei più minimi
dettagli, da Thomas C. Reed, ex-membro del Consiglio per la Sicurezza
Nazionale degli Stati Uniti d’America, nel suo libro dal titolo “At the Abyss: An Insider’s History of The Cold War”
(Sull’abisso: una storia della guerra fredda scritta da uno al
dentro”), mai tradotto in Italia, Paese dove certe sudditanze dure a
morire arrivano, spesso, al tragicomico epilogo dell’eccesso di zelo
censorio, anche dopo che il “burattinaio” ha mostrato i fili.
Alla luce
di quanto narrato e documentato da Reed, come escludere che anche a
Chernobyl, nel 1982 e nel 1986, possa essere avvenuto qualcosa di
simile? E qui già sento aleggiare le obiezioni, già prima fugacemente
menzionate, di chi sa guardare poco lontano dal suo naso, ma anche di
chi, in buona fede e sincera volontà di capire, strabuzza gli occhi
davanti a scenari da Dottor Stranamore: com’è possibile che delle
persone, per quanto pedine di un complotto, abbiano accettato
scientemente di provocare un danno in una centrale nucleare dalle
prevedibilissime tragiche conseguenze, in primis su esse stesse?
Chi si
pone un simile interrogativo (legittimo nella misura in cui chi lo
avanza non si è dato già risposte refrattarie ad ogni chiarimento in
senso opposto), deve tener presente che, quando si studia un sabotaggio e
lo si mette in atto, le conseguenze, spesso, vanno ben oltre le
intenzioni. La notte del 26 aprile 1986, plausibilmente, chi ha attuato i
piani del complotto pensava di certo a un sabotaggio che avrebbe
comportato un danno ridotto, o non così devastante come quello che poi
avvenne.
L’importante era infliggere un vulnus all’economia ed
all’immagine dell’URSS, consci del fatto che, con il nuovo indirizzo
della Perestrojka, i panni sarebbero stati non lavati in casa,
come avveniva prima (e giustamente, per certi fatti!) ma esposti in
pubblico, a rinfocolare il coro mondiale del dileggio per l’“arretrata” e
“pericolosa” tecnologia sovietica. La sottovalutazione delle
conseguenze riconduce all’umana fallibilità, in questo caso accompagnata
da comportamento criminale dei tecnici non solo in ordine allìatto
compiuto, ma anche alla leggerezza (questa sì) con la quale si pensò di
scartare a priori conseguenze più gravi. Ciò, naturalmente, nell’ipotesi
in cui complotto vi sia stato, e su questo chi scrive intende non
affermare dogmi di fede, ma portare elementi di riflessione.
Le vicende processuali di alcuni responsabili della tragedia, in primis quella che interessò l’ingegner Djatlov, lasciano pensare a una trama molto poco “cristallina”: il dirigente in questione fu condannato, nel 1986, a 10 anni di colonia penale, ai sensi del Codice Penale della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, ma quattro anni dopo venne rilasciato, ufficialmente per una malattia grave (morirà nel 1995, a 64 anni). Appoggiato e sostenuto ad ogni piè sospinto dagli immancabili templari dell’antisovietismo Andrej Sacharov ed Elena Bonner, Djatlov dette la colpa di tutto quanto era accaduto ai progettisti dell’impianto, tesi debolissima e, anzi, inconsistente, visto che l’impianto di Chernobyl, a detta di molti scienziati, anche occidentali, era stato costruito con tutti i crismi della sicurezza strutturale. Djatlov sapeva e voleva coprire responsabilità sue e di altri?
Se poi a
questo associamo il ritrovamento di tracce di TNT e di esplosivo al
plastico attorno all’area dell’incidente, allora si può pensare
addirittura ad un doppio binario: sabotaggio interno ed esplosivo
collocato all’esterno, a rafforzare gli effetti disastrosi della
deflagrazione, da parte di agenti stranieri introdottisi furtivamente e
poi prontamente fuggiti. Ipotesi, congetture, certo, ma sostenute dai
lati oscuri della vicenda, dai suoi “buchi neri” non ancora colmati
dalla benefica luce della chiarezza, non meno che da fatti espliciti e
sottaciuti o censurati con violenza. In tutto ciò, cosa sapeva
Gorbaciov?
Come minimo, vi erano quinte colonne al servizio
dell’imperialismo, nel suo entourage, ma la sua stessa figura, come
testimoniano le dichiarazioni rese all’Università di Ankara nel 1999, è
tutt’altro che adamantina: l’ex-segretario del PCUS, coccolato dai
circoli imperialisti mondiali, aveva pubblicamente affermato, in
Turchia, di aver lavorato con gli statunitensi alla disgregazione
dell’URSS.
Non si spiegherebbero altrimenti misure e provvedimenti
economici e politici che minarono la stabilità dell’URSS, il suo
benessere e il suo potenziale produttivo, facendo regredire la seconda
superpotenza mondiale allo status di colonia. Che anche Chernobyl abbia
fatto parte della congiura antisovietica è perfettamente plausibile,
quindi, con attori e comparse non solo stranieri, ma anche all’interno
delle frontiere del Paese, a ripetere il copione stabilito almeno fin
dal 1982 dai “gentiluomini” di Langley, come li definiva lucidamente, e
con pepata ironia, la stampa sovietica fin dagli anni ’60.
Luca Baldelli
Riferimenti:
Youtube
CCCP Revivel
Prolecenter
KM
AuroraSito
fonte: https://aurorasito.wordpress.com/2017/02/20/chernobyl-sabotaggio-imperialista/
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