mercoledì 24 maggio 2017

Usciamo fuori dal ghetto della spiritualità

 
Vorrei usare un'espressione presa in prestito da un insegnante a me molto caro, allo scopo di mettere chiaramente il punto su una questione scottante che a me sembra ormai della massima urgenza. 
 
E' ora di uscire dal ghetto della spiritualità. 
 
La cosiddetta "spiritualità", termine al quale anche io mi sono legato per anni, che include un vastissimo coacervo di tecniche, pratiche e metodi che hanno gli scopi più disparati (e gli esiti più diversi sulle persone), è ormai diventata a tutti gli effetti una moda. 
 
Se questo non avesse avuto effetti nefasti su molte delle persone con cui sto lavorando in questo periodo non sarebbe poi un gran problema, potremmo vivercela come qualunque movimento di tendenza, come un nuovo tipo di musica, un nuovo modo di vestire ad esempio. 
 
Ma non è così semplice. 
 
A me sembra che si sia perso molto del senso di ciò che si cerca, del perché lo si cerca, e dei mezzi necessari per arrivare a ciò che si cerca. 
 
Il fatto che mi ha colpito di più però, non è nemmeno questo, quanto piuttosto quel frasario costante con cui i praticanti di qualsiasi percorso (come anche io all'inizio) si esprimono quando interrogati sul senso di ciò che fanno o quando gli viene chiesto di raccontare quale sia il loro percorso. 
 
Fioccano allora parole come anima, spirito, sé, angeli, miracoli, amore, karma, alchimia, trasmutazione, presenza, non giudizio, non dualità e così via, parole che in sé per sé non avrebbero niente di pericoloso se solo ci fosse dietro all'uso delle stesse un tentativo di comprensione profonda, di esperienza dei fenomeni connessi a queste parole (a patto che ce ne siano e che siano sperimentabili). 
 
Ma mi sto accorgendo invece di come, il più delle volte queste parole vengano impiegate in maniera inconscia, stordente, per accontentarsi di un barlume di concetto dietro al quale non vi è alcuna esperienza viva, e di come vengano ripetute in modo quasi meccanico ogni volta che l'esperienza della vita non risulta comprensibile, o non sia emozionalmente tollerabile. 
 
Ecco allora che laddove c'è il dolore, la malattia e la morte, arrivano sempre interpretazioni del perché e del per come quel qualcosa sia accaduto proprio a me, ecco chiacchiere sul karma, sulla reincarnazione, sul 'chissà che ho combinato in un'altra vita per meritarmi questo', su entità, forme pensiero e tutti i tentativi meccanicistici di comprendere fenomeni che, a questo livello di percezione, non sono percepibili. 
 
E la spiritualità è diventata per molti un ghetto nel quale rifugiarsi per fuggire dalla vita, troppo confusa, a volte dolorosa e spesso incomprensibile. 
 
I tentativi di spiegazione dei fenomeni della realtà, da mere teorie quali sono, spesso diventano intolleranti e incontrovertibili ostentazioni che portano ad allontanarsi proprio da ciò che maggiormente può istruirci sui fenomeni reali ossia la realtà stessa, e da coloro che la pensano diversamente da noi. 
 
La vita e il suo fluire sono dimenticate in favore di metafore poco funzionali che tengono occupata la mente e ritardano un sentire profondo che potrebbe, secondo me, essere la vera rivelazione spirituale. 
 
Ma questo non ci basta. 
 
Vogliamo effetti speciali, capacità paranormali, visione dell'aura e delle vite passate, e lo vogliamo anche velocemente senza la necessaria disciplina che questo comporta. 
 
Vogliamo dare ordini a Dio, usare gli angeli per i nostri scopi, e parlare con i maestri ascesi accedendo all'akasha. 
 
Dopo tanti, troppi anni passati a nutrirmi di questo genere di informazioni ho iniziato a sentirmi, appunto, stordito. 
 
Ad un certo punto della mia vita ho notato che questo aderire ciecamente a quel corpo di credenze che chiamiamo spiritualità, mi stava rendendo sempre meno umano. 
 
Ho sentito la vita reale allontanarsi sempre di più, e ho visto aumentare quel senso di superiorità tipico di chi si occupa di queste cose strane, prendere gradualmente piede nelle mie relazioni con gli altri specie quelli che non si occupavano di spiritualità. 
 
La mia vita ad un tratto, anni fa, era diventata una banale e noiosa predizione di eventi in base a leggi che ritenevo perfette, immutabili e sempre affidabili. E sebbene molto di quello che accadeva sembrasse davvero soggetto a leggi e principii c'era sempre qualcosa che non si conformava, quell'un per cento, il fattore X. 
 
Fu solo quando, dietro suggerimento di una mia insegnante, lasciai andare il tentativo di capire e controllare tutto, che mi si palesò il fatto che, realmente, non sappiamo nulla. 
 
Tracciamo mappe ipotetiche di un territorio in continua trasformazione, cercando variabili fisse che non emergono mai. 
 
Ci convinciamo di avere delle risposte ma, in realtà, queste risposte non ci sono se non nella nostra testa. 
 
Queste presunte risposte nostre o mutuate dagli altri, le chiamiamo spiritualità. Con esse cerchiamo di dare un senso al mistero della nostra esistenza. 
 
Ma io comincio a credere che questo mistero, non si possa 'comprendere', ma solo vivere a fondo, sentire. 
 
Credo che questo mistero possa solo essere navigato.
"Vi è una sola esperienza. Che cosa sono le esperienze del mondo se non quelle basate sul 'falso io'? Chiedete all'uomo che ha il più grande successo del mondo se conosce il suo Sè. Vi risponderà di no. Che cosa si può conoscere se non si conosce il Sè? Tutto il sapere umano è costruito su queste fragili fondamenta" - (Ramana Maharshi)


Andrea Panatta

fonte: http://maghierranti.blogspot.it/2016/07/usciamo-fuori-dal-ghetto-della.html

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