Sri Aurobindo metteva il silenzio mentale, la capacità di sganciarsi e
di osservare in piena coscienza l'attività della mente, come primo passo
del lavoro e, dopotutto, non posso che essere d'accordo con lui.
Questo
è il primo imprescindibile passaggio e anche forse uno dei più ostici.
Di sicuro uno dei meno sottolineati. In un'epoca nella quale si cerca
tanto l'effetto speciale, la dimostrazione, nella quale si condisce
tutto con parole come "quantico" e "divino", in un momento storico in
cui sta aumentando il rumore generato da promesse e chiacchiere, pochi
si accorgono di quanto il silenzio interiore e la capacità di
discriminare quali siano le forze che ci attraversano siano alla fine
gli strumenti più importanti da coltivare.
Siamo attraversati infatti da
ogni genere di informazione a livello sottile, informazioni che
provengono da tutto ciò cui siamo esposti giornalmente, ivi incluse le
parole dei libri che leggiamo, dei nostri guru e insegnanti. Siamo
esposti a ciò che accade nella società, in famiglia, nelle cerchie delle
relazioni. Siamo esposti a forze collettive e quasi del tutto inconsce,
a movimenti di energie che molti di noi possono solo immaginare.
Tutto
questo va a nutrire un rumore di fondo che fa da substrato a molta della
nostra attività mentale.
Un pensiero salta fuori da chissà dove, magari
mosso da una di queste forze delle quali non sappiamo nulla, e diciamo
'io ho pensato questo'. Un impulso si fa vivo e inizia a spingere il
corpo verso il suo compimento e diciamo 'io ho questo impulso'. Siamo
davvero convinti che sia 'io' a star dietro a tutti questi fenomeni
apparentemente fuori controllo, ma ad una osservazione più attenta prima
o poi verrà fuori la triste verità.
Questo 'io' che diciamo di essere
ha pochissimo o quasi nessun potere sull'attività mentale, pochissima o
nessuna influenza su certi impulsi irrazionali, men che meno sulle
emozioni. Questo 'io' che diciamo di essere può al massimo arrivare a
percepire questo rumore di fondo generato della sofferenza e
dell'inconsapevolezza umana ma poi non sa che fare quando arriva a
vedere a quella profondità, e spesso cade nel sonno, arrendendosi
all'inconsapevolezza e all'impossibilità di sganciarsi da quel rumore
così seduttivo.
In realtà la maggior parte delle nostre azioni e dei
nostri pensieri non sono nostri, ma emergono da quel marasma che
continuamente ci attraversa. Il fatto che riteniamo ci sia un 'me'
dietro quelle azioni e pensieri e il motivo per cui lo riteniamo si
fanno chiari solo con la pratica del silenzio interiore, anche se
possono volerci anni per accorgersi del subdolo meccanismo. Ogni volta
che un pensiero o un impulso sorgono dal marasma, la nostra attenzione
vi aderisce completamente e ci identifichiamo automaticamente con ciò
che è sorto.
Non mettiamo nemmeno in discussione la certezza che sono
proprio 'io' ad aver avuto quel pensiero, 'io' ad avere quella spinta a
fare qualcosa. In realtà ogni nostro pensiero e azione parlano sempre
della nostra sfocatura e mai di quel presunto 'io' che vorremmo
ingenuamente ritenere l'autore delle nostre azioni. In un primo tempo
questo mi terrorizzava, perché mi accorgevo sempre di più che 'io'
sembrava non avere una volontà propria, sembrava non avere davvero altra
possibilità che non arrendersi all'inconsapevolezza ogni volta che
qualcosa fuoriusciva dal rumore di fondo per presentarsi alla coscienza e
reclamare attenzione.
I primi tempi di pratica ricordo bene che il
rumore aumentava a dismisura e si faceva insopportabile, come se, una
volta guardato direttamente, chiedesse di essere visto con ancora più
violenza. Nonostante tutto però, un potere questo 'io' lo aveva. Anzi
due, mi accorsi. Il primo era che 'io' potevo sempre dirigere
l'attenzione dove volevo e ritirarla da dove non volevo. Il secondo era
che 'io' potevo mantenere una ferma intenzione anche laddove il rumore
di fondo si faceva insostenibile.
L'intenzione di non agganciarmi, di
ricordarmi che 'io' non ero ciò che guardavo. Ed emergeva materiale,
pensieri, emozioni, intuizioni, visioni, luci, colori, suoni, ricordi. E
ad ogni strato che emergeva rinnovavo la mia intenzione di non
agganciarmi e di non aderire alla storia che la mente sembrava
raccontare, dando attenzione piuttosto che al pensiero e all'emozione
del momento, a quello spazio gentile, accogliente e sempre presente sul
cui sfondo sembrava agitarsi tutto questo mare di fenomeni.
Con il tempo
questo approccio iniziò a ridurre e dissolvere il rumore, portando
a volte alla sua completa scomparsa. E il lavoro era più simile
all'arare un campo piuttosto che al cercare di soddisfare ogni mia
tendenza del momento, realizzare i miei desideri, o raggiungere
illuminazione e risveglio.
Soprattutto a un certo punto mi fu palese che
il problema serio non era il raggiungimento del silenzio ma il riuscire
a mantenerlo nella vita reale quando il rumore prodotto dalle
circostanze si faceva assordante e tendeva a farmi cadere sempre di più
in quello che era un lungo sogno dove la sensazione di 'io' si mescolava
irrimediabilmente alle emozioni e ai pensieri che mi attraversavano. E
un bel giorno di qualche anno fa mi si presentò agli occhi la cruda
verità, che se non c'è in noi questa ferma determinazione di andare
oltre questo rumore di fondo non siamo che pupazzi in mano
all'inconsapevolezza.
Ho dovuto vedere e toccare con mano il fatto che è
un lavoro che va avanti tutta la vita, e che è solo da quei momenti di
quiete che posso vedere quanti impulsi di origini differenti si agitano
in quel marasma cercando di accampare diritti di proprietà e di spingere
la vita in ogni direzione. Ed è solo in quella quiete che posso vedere
davvero e con chiarezza da dove originano.
E' un lavoro noioso,
stancante, che non ha la pretesa di regalare salti quantici o miracoli
improvvisi, ma è l'unico lavoro, a mio parere, in grado di regalare la
facoltà di scelta sul proprio destino, sulla propria linea di vita. E'
un lavoro che insegna a non aderire a ogni pensiero ed emozione, e che
dopo anni mi ha fatto capire cosa intendesse Lester Levenson quando
affermava che ogni pensiero e ogni emozione sono di fatto delle
limitazioni, che ogni tendenza non è nient'altro che la nostra abitudine
a rispondere a pensieri ed emozioni come se fossero nostri.
E' il
lavoro maestro che mi ha insegnato che fondamentalmente di 'mio', in me
stesso, c'è davvero poco fin quando non imparo a dirigere l'attenzione e
a rinnovare la purezza dell'intenzione di andare verso il silenzio. Non
è stato un passaggio facile tuttavia. Ad ogni passetto in avanti che
facevo c'era sempre più forte in me la voce della sfocatura che
recalcitrava urlando "Questo non è giusto! Non è responsabile!
Questi
sono i tuoi pensieri, le tue storie, questo è tutto il tuo passato e
quello dei tuoi antenati. Questo è ciò che tu sei! La sofferenza è
normale! Questo è quello che fanno tutti, e chi sei tu per voler essere
diverso? Che ne sarà di te senza tutto questo?".
Ed era tutto vero. In
quella massa di forze psichiche c'era tutto ciò in cui la gente credeva,
e in cui io credevo fino a poco prima.
C'erano tutte le soap opera, la
violenza, l'ingiustizia, le credenze, i nemici, l'importanza personale,
le condanne e le recriminazioni che ogni essere umano ascriveva alla
vita, perchè 'così è la vita'. In quel guazzabuglio c'era la sommessa
convinzione che nella vita non siamo che pupazzi in balia degli eventi e
che questo non si può affatto cambiare. E qualche volta capita ancora
che io ci creda, lo ammetto.
Capita ancora che la sfocatura mi tenti a
cadere nella convinzione che non abbiamo nessun potere.
Ma un potere ce
l'abbiamo, anzi ben due: il potere di dirigere l'attenzione e quello di
rinnovare la nostra intenzione. Con il tempo e con la pratica quotidiana
questi due potranno portarci fuori da ogni cosiddetto problema e
magari, un giorno, scopriremo davvero cos'è quell''io' che credevamo di
essere.
Andrea Panatta
fonte: http://maghierranti.blogspot.it/2017/06/rumori-di-fondo.html
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